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La città della Resistenza
L'8 settembre 1943 la città vive un
momento di notevole tensione; il sollievo per la fine della guerra lascia
il posto alla preoccupazione per la minaccia di occupazione tedesca. Non
manca una significativa disponibilità a resistere, come dimostra
l'imponente manifestazione di operai e cittadini di fronte alla Camera
del lavoro la mattina del 10 settembre. Tutto inutile, i quadri militari
che dovrebbero difendere la città stanno già trattando la
resa. I tedeschi entrano in Torino nel pomeriggio del 10 settembre; sparano
nei pressi di Porta Nuova, fanno una strage di civili all'Opificio
militare di corso Regina Margherita. Le ordinanze tedesche
impongono rapidamente un ordine militare ad una città che ha un
valore strategico nel quadro di sfruttamento delle risorse industriali
dell'Italia a vantaggio della macchina bellica del Reich. Gli episodi
di generosa e ingenua opposizione condotti da giovani antifascisti in
forme spontanee vengono circoscritti e stroncati.
Si apre per la città una stagione drammatica, che durerà
diciotto lunghi mesi. Alla guerra si sovrappone il peso degli occupanti
e subito si aggiunge lo scontro politico civile tra l'antifascismo e l'ultima
versione del fascismo, quello repubblicano. La Militärkommandantur
stende la sua rete di controlli diretta ed efficace nei settori considerati
vitali (economia e trasporti), indiretta e defilata nella gestione della
quotidianità in cui lascia esposti gli alleati fascisti, a cui
sono affidati gli sgradevoli compiti della "normale" repressione.
Eppure nel corpo della città provata e ridotta alle funzioni essenziali
della sopravvivenza, sconvolta nei suoi ritmi (un terzo degli abitanti
è sfollato, decine di migliaia la invadono al mattino per il lavoro
e alla sera l'abbandonano, le relazioni sociali sono dominate dalla necessità
di soddisfare i bisogni primari, in primo luogo la ricerca del cibo) la
volontà di non piegarsi, di non subire resta viva.
Questa determinazione a resistere assume due volti: il primo è
quello delle minoranze politicizzate che si attivano, si cercano e costruiscono
una rete clandestina che dà vita agli organi politici (il Comitato
di liberazione nazionale piemontese, Clnrp) e militari della resistenza.
Il meglio della cultura politica antifascista della città, preservata
e innovata rispetto al lontano primo dopoguerra, si proietta fuori a costruire
le strutture della resistenza armata nelle aree (la montagna prima, poi
la collina, infine la pianura) che fascisti e tedeschi non possono totalmente
controllare. Torino diventa il cuore e la mente della resistenza armata
su scala regionale, potendo contare su quadri politici dell'antifascismo
e su quadri militari provenienti dall'esercito. È una rete che
richiede supporti logistici, luoghi di riunione sicuri, punti di ritrovo
per trasmettere e ricevere messaggi, connivenze per fare arrivare denari,
materiali, armi e uomini. Case private certo, ma anche luoghi pubblici
che non destino sospetti come alberghi, ospedali, cliniche, ma anche fabbriche,
negozi, scuole, oratori, chiese e perfino uffici pubblici come l'Archivio
di Stato. Notevole è il supporto di sacerdoti coraggiosi e di ordini
religiosi, come i salesiani, quasi una eco dell'apertura sociale della
chiesa torinese che trova le strade e le forme per non sottrarsi ad una
prova impegnativa.
Sul versante laico i richiami gramsciani e gobettiani posso sembrare scontati;
certo è che il meglio dell'intellighenzia borghese è implicato
in forme diverse, ma non equivoche nella prova. Non si può dire
che queste presenze esemplari portino automaticamente dietro di sé
il consenso della borghesia torinese. Chiusure egoistiche non mancano,
ma non mancano neppure coinvolgimenti tra imprenditori e figli della borghesia
ricca che potrebbero facilmente sottrarsi alla prova. E tra la borghesia
delle professioni si evidenzia l'impegno di avvocati e giudici che si
spendono al di là dei limiti della prudenza per strappare ad una
legge senza diritto le vittime predestinate, di medici che curano e nascondono
pazienti pericolosi, di professori e studiosi che lasciano le cattedre
di scuola per un'avventura che può avere conclusioni tragiche.
Non si tratta di quadri di maniera, ma di quanto emerge da un'analisi
della composizione sociale della resistenza torinese, in cui, ad esempio,
gli strati borghesi e picolo borghesi forniscono un contributo numericamente
rilevante, poiché alimentano, grazie a livelli culturali più
evoluti, una quota importante dei quadri militari e politici della resistenza,
espressione di un nuovo antifascismo accanto a quello storico, così
come costituiscono il nerbo di partiti "nuovi", come il Partito
d'azione o la Democrazia cristiana. Nella scelta pesano molti fattori,
ma certamente per il contesto torinese, il doversi confrontare con i comportamenti
della componente sociale più rilevante della città, la componente
operaia.
È questo il secondo volto della resistenza torinese. Nelle fabbriche
matura un'opposizione determinata al fascismo e ai tedeschi, fatta di
scelte politiche, ma anche di condizioni materiali di lavoro e di vita
sempre meno sopportabili. È un'opposizione che continuamente passa
dalla condizione sociale (rivendicazioni di salario, di viveri, di riduzione
di orari, di difesa del posto di lavoro) alla protesta politica in difesa
di compagni arrestati, contro il controllo militare nelle fabbriche, contro
le minacce di deportazione, di smantellamento degli impianti e, infine,
contro la guerra che riassume in sé tutte le negatività
della condizione operaia. È un discorso inizialmente implicito,
poi sempre più aperto che si scontra con la logica ultima fascista
e tedesca che vuole la continuazione della guerra ed è pronta a
lusingare gli operai e a premiarli rispetto al resto della popolazione
in termini materiali e in termini politici (la socializzazione) pur di
ottenerne il sostegno o almeno un'operosa passività. Ma non ci
sono più margini materiali, né politici; la guerra sta consumando
ogni risorsa e le proposte della Repubblica sociale, che né gli
industriali, né i tedeschi condividono, si svuotano dall'interno
prima ancora che per l'opposizione degli antifascisti.
In una città ridotta all'osso, cioè alle sue strutture produttive,
ciò che avviene nelle fabbriche si trasmette alla città,
ai quartieri operai che circondano un centro piccolo presidiato e quasi
accerchiato da un mondo ostile. Le fabbriche diventano il luogo della
politica, dove si fa politica e dove si impara la politica. La politica
si fa con l'azione di massa, con lo sciopero: dal novembre-dicembre 1943
allo sciopero generale del marzo 1944, allo sciopero contro il trasferimento
delle macchine del giugno, alle lotte diffuse, dell'autunno-inverno 1944-'45
per sopravvivere contro il freddo e la fame, allo sciopero preinsurrezionale
del 18 aprile 1945 l'arma della lotta sociale viene utilizzata in tutte
le sue sfumature. Produce risultati, ma anche identità, solidarietà
di classe, capacità di sperimentare il conflitto dandosi obiettivi.
La politica si fa con l'organizzazione, costruendo gli strumenti necessari
a realizzare gli obiettivi sindacali e di lotta antifascista (i Comitati
sindacali, i Comitati di agitazione, i Cln di fabbrica e di quartiere),
costruendo i partiti e le loro articolazioni e gli strumenti della lotta
antifascista, come le Squadre di azione patriottica (Sap). La politica
si impara e si insegna in uno straordinario processo di formazione che
costruisce i partiti antifascisti, ma anche li trasforma come avviene
in profondità per quello più attivo e più esposto,
il Partito comunista, che dall'autunno 1944 diventa partito di massa.
Ciò che avviene in fabbrica pesa sulla politica e costringe tutte
le forze antifasciste a misurarsi con questa realtà. Inoltre la
linea continua delle fabbriche che da nord, a ovest, a sud circonda il
centro, fa da cerniera con la campagna, con la terra di nessuno prima
delle valli dove stanno i partigiani. Dalle fabbriche parte un flusso
di giovani che vanno in montagna, pochi all'inizio, migliaia nell'estate
1944; nell'autunno-inverno successivo un flusso consistente rientra nelle
fabbriche in parte legalmente, in parte in forme clandestine, contribuendo
alla lotta in città che si è fatta sempre più dura
e più sorda quando tedeschi e fascisti hanno capito che la partita
politica è persa e non hanno che la repressione come strumento
di controllo e di imposizione della propria volontà. La città
conta i luoghi del dolore e dell'orrore: quelli ufficiali delle esecuzioni
come il Martinetto,
quello delle torture di via Asti, di Palazzo Campana (allora Casa littoria),
dell'albergo
Nazionale (sede della Gestapo),
della sede delle SS di corso Tassoni, delle Nuove. Ma anche, a segnare
il salto nella barbarie, angoli di vie, di piazze, di luoghi centrali
e di periferia, a volte vicino alle fabbriche, in un crescendo di rappresaglie
e controrappresaglie da cui non resta immune neppure la tranquilla collina
torinese dove, nel suggestivo Pian
del Lot, ventisette giovani
vengono fucilati con modalità disumane.
Quando il 18 aprile 1945 gli organi della resistenza proclamano lo sciopero
generale come prova dell'insurrezione, la città si ferma. Non solo
le fabbriche, come era più volte avvenuto nel corso dei venti mesi,
ma la città. Questo percorso e questa consapevolezza consentono
alla città di affrontare la prova dell'insurrezione. Le tre guerre
(di liberazione dagli occupanti tedeschi, di libertà nei confronti
del fascismo, di classe per una società più giusta) che
hanno attraversato il corpo della società ora si intrecciano e
si fondono, chiudendo un'esperienza che ha fatto di Torino un caso esemplare
e insieme eccezionale. (C.D.)
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